YOGA

YOGA: ANELITO ALL’UNITÀ

Per parlare di Yoga, partiamo dall’ immagine offerta dal caleidoscopio della società di oggi: mille stimoli visivi, uditivi, tattili, gustativi; masse umane e meccaniche, onde elettromagnetiche a velocità smodate; l’affanno del vivere catturato in un turbinio di sensi, di desideri vaghi e confusi; un avanzare frenetico verso mete fantasmagoriche.

Se da un lato, trapela una crescente frantumazione dei valori del singolo e della coesione comunitaria, dall’altro si ode sempre più forte un grido alla ricerca di senso, di unità, di libertà.

Un anelito all’unità che è insito a tal punto nella cultura dell’India da essere ricordato e sottolineato quotidianamente nel gesto comune del saluto in cui si congiungono le mani di fronte al cuore, nel tipico namaste. Simbolicamente si comunica all’altro una sostanziale non differenza e una reale unità sperimentabile nella parte più sacra di ognuno di noi, nel cuore, dimora emblematica del Divino.

In tutti gli esseri sembra essere innata la ricerca più o meno conscia di unione, sospinti dall’urgenza di sanare un senso profondo e nascosto di separazione. In risposta a questo sussulto interiore si cerca l’unione per ristabilire un’armonia, una pienezza originaria. Quello che varia, però, da uomo a uomo è il dove essa è cercata: nel contatto dei sensi con i loro oggetti? Indagando la natura dei sensi e della propria mente, per riscoprire la propria vera Realtà e, infine, che non vi è mai stata alcuna separazione?

Queste domande non erano estranee ai saggi e veggenti indù, i rishi, che hanno scrutato la natura del mondo, dell’uomo e dell’Assoluto ed elaborato conoscenze e metodologie finalizzate a realizzare lo scopo della vita. Quest’attenzione al concetto di unità è evidente nel termine yoga, già presente nei Veda. Panini menziona due radici sanscrite: yujir, nel senso di “unire”, “congiungere”, e yuj, esprimente uno stato di profondo assorbimento meditativo.

Tradizionalmente i Veda sono considerati eterni perciò è forse irrilevante tentarne una datazione. Allo stesso modo, è difficile stabilire la data di nascita esatta dello yoga come sistema filosofico pratico. Di certo non si possono ignorare i ritrovamenti di alcuni sigilli, in arenaria, provenienti dalla Civiltà della Valle dell’Indo che mostrano raffigurazioni di uomini e Divinità in una chiara postura dello yoga, padmasana e siddhasana. Ciò testimonia la grande antichità dello yoga.

Curioso è notare che yoga non ha solo accezioni spirituali o filosofiche bensì può essere impiegato nei contesti più disparati nel suo significato generale di “congiungere”; per esempio, unire l’aratro ai buoi o, in astrologia, per indicare la congiunzione di pianeti, costellazioni, in medicina, nell’arte amatoria, nella geometria, e così a seguire.

Ciononostante, il termine assume, nel corso della storia religiosa indiana, sempre più chiaramente dei connotati esoterici e si carica di una doppia valenza: metodo o disciplina e stato particolare dell’essere.

D’altro canto in alcune Scritture queste due accezioni sono impiegate insieme per denotare l’unione dell’anima individuale, atman, con l’Assoluto, Paramatman. Ecco allora emergere qui la questione delle varie declinazioni del termine yoga a seconda anche dell’impostazione teologica e filosofica di ciascuna scuola e tradizione.
Nella Maitrayani-upanishad, lo yoga è descritto come “uno stato in cui i sensi, la mente e il prana sono unificati e posti in silenzio”.
Negli Yoga-sutra, Patanjali, piuttosto che mostrare lo yoga come un’immersione nell’Assoluto, lo evidenzia come uno stato di separazione in cui l’anima individuale si decondiziona definitivamente dal contatto con la materia, prakriti, e resta in uno stato di perfetto isolamento, kaivalya, ma in un’unione perfetta con l’Assoluto, il testimone Purusha.
Nella Bhagavad-gita, lo yoga si intende come lo stato in cui ci si separa dall’unione con il dolore.

UNA RISPOSTA AL DOLORE

Nel corso dei secoli, pur cambiando gli addendi, l’uomo è posto sempre e inevitabilmente di fronte al problema del dolore. Questo può vestire abiti differenti da persona a persona, da società a società, da epoca a epoca, ma, di fatto, resta una prerogativa della natura, della vita e della manifestazione. Perfino la gioia è sempre accompagnata o seguita dal dolore. Se si possiede qualcosa, si ha paura di perderla; se non si possiede ciò che si desidera si soffre per questo; spesso la felicità di uno significa la privazione o l’infelicità di altri. Così, anche quello che oggi sembra essere nettare, afferma la Bhagavad-gita, si rivela essere veleno domani. Come ci si libera allora da questa sofferenza?

Una risposta arriva dallo yoga che si interroga sulla natura del dolore ed “escogita” una via sicura per una radicale emancipazione da esso. In quest’ottica, lo yoga è paragonabile a una medicina che cura non solo i sintomi, ma che estirpa definitivamente la “malattia esistenziale” che affligge l’essere umano: l’ignoranza (avidya).
La radice del dolore, affermano le Scritture sullo yoga, è proprio questa ignoranza, che porta l’essere umano a identificarsi con gli oggetti dei sensi e pensare che questi siano la fonte della propria felicità. In questa falsa percezione si radica il vincolo, ciò che spinge a ripetere l’esperienza del piacere e, così facendo, a imprimere nell’inconscio un’impressione che diviene il seme di una futura esperienza e così via in un lungo processo, alla base del ciclo di nascita e morte. Lo scopo della vita è, perciò, liberarsi da questo magazzino di impressioni e riscoprire la propria vera Natura divina che è libertà e gioia.

UNA RISPOSTA AL DOLOREIl ruolo dello yoga è di rimuovere questa ignoranza attraverso il processo di discriminazione tra ciò che è reale e ciò che non lo è, attraverso la soppressione delle modificazioni mentali. Queste ultime sono paragonate alle onde di un lago le cui increspature non permettono di vedere la trasparenza dell’acqua. L’essere umano, dicono le Scritture, è puro e cristallino come quell’acqua, ma si tinge di vari colori a causa del contatto dei sensi con i loro oggetti.

Appare evidente quindi che lo yoga non può essere considerato un mero insieme di pratiche ginniche o psichiche, bensì un sistema di valori etici e filosofici, congiunti a una metodologia scientifica, senza pari, che indaga l’essere umano in ogni suo aspetto: fisico, emotivo, vitale, inconscio, intellettuale, psicologico, spirituale… Lo yoga è un mezzo di consapevolezza; un “viaggio” che l’individuo compie dall’individualità all’universalità.

Nella Bhagavad-gita si dice che yoga è equanimità e, più avanti, che è abilità nell’azione. Lo yoga insegna a compiere le azioni con una mente equanime non soggetta all’influenza degli opposti e senza essere condizionati dal loro frutto; è una via che conduce alla piena libertà, non intesa come il fare ciò che si vuole, ma nel senso di totale consapevolezza di se stessi e delle inclinazioni inconsce.

Lo yoga, afferma Patanjali, aiuta a purificare la mente dalle 5 grandi afflizioni, klesha: l’ignoranza, il senso dell’io, l’attaccamento, l’avversione e il radicamento alla vita. Per fare ciò egli offre un sistema propedeutico suddiviso in otto passaggi, ashtanga-yoga.

LO YOGA: PATRIMONIO VALORIALE ED ETICO PER L’UMANITÀ

Primo presupposto della disciplina yoghica è una salda base etica. Un codice di condotta (yama e nyama) che regola il rapporto che si deve avere con gli altri e con se stessi. Per questa ragione, lo yoga è un tesoro inestimabile anche per guarire il male dell’individualismo contemporaneo che vuole anestetizzare all’altro, che mostra l’altro come una minaccia alla propria ricchezza, al proprio ruolo, alla propria sicurezza e serenità. Lo yoga dona dei principi che si estendono a tutti, non opera nessuna distinzione di classe, genere, razza o credo. Offre un ventaglio di valori che sono eterni e universali, nutrimento indispensabile per l’armonia tra i popoli. Tra questi il principio del non nuocere, del non desiderare più di quanto sia necessario, la capacità di accontentarsi di ciò che si ha, il principio della verità, della carità, e così, fino a formare un tessuto ideale di pace e solidarietà tra gli esseri.

Lo yoga insegna a vedere Dio in tutti gli esseri ed essere felice per chi è felice, compassionevole verso chi soffre, compiaciuto verso i virtuosi e indifferente ai malvagi. Lo yoga è, in quest’ottica, una risorsa antica e attuale, necessaria ora più che mai.

DIVERSE VIE, UN UNICO SCOPO

Si è soliti suddividere lo yoga in tre grandi macro categorie, per quanto se ne potrebbero elencare molte di più: karma, bhakti, jnana o raja.
Sebbene, infatti, le definizioni e le declinazioni dello yoga siano diverse, tutte esortano a mantenere una disciplina costante e continua, abhyasa; a sviluppare il totale non condizionamento dagli oggetti sei sensi, vairagya; e uno stato di mente non disturbato e non agitato dai movimenti inconsci, ekagrta.

È bene precisare che tali categorie sono vie che portano a una medesima meta e non possono essere separate le une dalle altre. L’una deve essere complementare all’altra. Esse sono funzionali solo all’inizio del cammino per permettere al praticante di scegliere il cammino che più si addice alle sue tendenze; vi è chi più incline all’azione, chi è più emozionale e chi invece ha un approccio più intellettuale. A un certo stadio però, tutte queste vie devono confluire in un abbandono consapevole a Isvara (Ishvara pranidhana), fino alla piena realizzazione dell’identità con Dio, alla piena libertà dai vincoli dell’ignoranza, mantenendo un’attitudine di servizio amorevole verso tutti gli esseri.

KARMA YOGA

Attraverso l’azione (karma), è la via dell’azione svolta con distacco, senza fini egoistici.

JNANA YOGA

Attraverso attraverso la conoscenza (jnana), è la via della perfezione attraverso la consapevolezza della Realtà, che non è conoscenza intellettuale.

BHAKTI YOGA

Attraverso l’amore e la devozione (bhakti), l’atteggiamento di abbandono alla volontà divina, è la via che porta ad avvicinarsi a Dio attraverso l’aspirazione e le tendenze emozionali.

LO SCOPO DELLO YOGA: MOKSHA

 

La liberazione dall’ignoranza che impedisce di sperimentare la beatitudine infinita. “Conosco quel Supremo Essere, rifulgente come il Sole, che splende sull’altra riva, oltre l’oscurità. ” (Shvetashvatara-upanishad, 3.8)

Moksha è un diritto di tutti gli esseri animati e inanimati. Nelle Scritture si accenna alla liberazione per tutti (krama-mukti) in un ciclo lungo di esistenze; tuttavia, l’essere umano può accelerare tale processo e, rispetto agli animali, alle piante e ai minerali, perseguire consapevolmente e volontariamente il sentiero verso la liberazione. A seconda delle scuole filosofiche la liberazione è declinata con sfumature diverse pur concordando sul fatto che colui che esaurisce la motivazione che lo spinge a nascere (karman) è libero e non sarà più vincolato al ciclo del samsara di nascita e morte. Ciò può avvenire quando si lascia il corpo (videha-mukti) o ancora in vita (jivan-mukti); quest’ultimo è soprattutto il caso di Maestri e mistici di levatura spirituale inimmaginabile che seppure affrancati da qualsiasi legame, scelgono di riprendere un corpo per aiutare i discepoli nel loro percorso evolutivo. Una concezione a cui fa eco anche quella buddhista del Bodhisattva.

MOKSHA